Come spesso accade, mi sono trovato ad utilizzare termini dei quali per lungo tempo ho ignorato l’etimologia. Il termine “sfigato/a” è uno di questi, ma da quando ho avuto occasione di riflettere sulla sua provenienza, ho smesso di utilizzarlo. Vi racconto perché.
Nella sua accezione più comune il termine “sfigato” significa “sfortunato”, portatore di sfiga. Leggendo un libro ( "Liberati dalla brava bambina" di Maura Gancitano e Andrea Colamedici, che consiglio a tutt*), si notava come la “s” del termine avesse una funzione privativa. Questo significa che “sfigato”, letteralmente, voglia dire “sprovvisto di figa”.
Insomma, essere sprovvisti di figa, ovvero avere la nomea di quella persona che fa difficoltà a procurarsi la figa, è diventato, nel tempo, sinonimo di sfortuna. Questo concetto è dunque legato al fatto che nel mondo in cui viviamo per ritenersi fortunat* sia necessario avere a disposizione una grande quantità di persone con la figa di cui, immagino implicitamente (ma fino ad un certo punto), poter usufruire sessualmente.
Indubbiamente, in una società patriarcale e maschilista in cui l’unico modo per legittimare la propria adeguatezza sia quello di poter avere a disposizione una grande quantità di “figa”, viene da sé che chi non riesce sia una persona sfortunata. Riflettevo però, ahimè, sperando di non incappare nella fastidiosa operazione di spoiler, sul fatto che le “fighe” non siano qualcosa o qualcun* che si è fortunat* o sfortunat* ad avere. E che non è affatto vero che le persone che ne sono sprovviste siano necessariamente sfortunate.
Questo, dunque, l’appello: per quanto difficile, dato il suo estremo radicamento nella nostra lingua, smettiamo di utilizzare il termine “sfigato”, perché perpetua degli stereotipi che faremo meglio ad abbandonare al più presto. Anche attraverso delle operazioni di censura linguistica.