Mi guardano.
Da vicino e da lontano.
Ascoltano il rumore che fanno le mie fronde al vento. Si soffermano a valutare attentamente le sfumature dei miei colori: questi verdi, ad esempio, possono essere molto diversi fra loro. Non dipende da me.
Immaginano.
“Chi c’era qui poco fa? Chi mi ha guardato? A chi ho permesso di sostare alla mia piccola ombra quasi cento anni fa?
Anche se sono piccolo mi chiedono di fare grandi cose. Tra di loro non lo fanno. Tra di loro esigono, non chiedono. Vogliono sapere quale sia il mio orientamento politico, chi ho nascosto dietro di me. O dentro di me. Chi separo? Cosa indico? Cosa significo? Come se esistere non fosse sufficiente per esistere.
Cercano di curarmi, di accudirmi. Inferiscono sulle mie escrescenze: inventano le soluzioni più assurde per rispondere ai miei bisogni. Se potessi parlare, non parlerei lo stesso. Neanche loro lo fanno, e possono parlare.
Scavano ai miei piedi per cercare chissà cosa, per nascondere chissà cosa. Sperano che cresca un altro me, pieno d’oro magari. Scrivono poesie, tutte marchiate dal netto intervento della presunzione di sapere come mi senta. Questo li fa godere, li fa sentire poeti.
Mi feriscono lasciando dei messaggi. Scrivono lettere che non rispettano né le regole del buon senso, né quelle della grafica. Utilizzano goffe calligrafie tutte molto simili fra loro. Sono le mie fibre a direzionare il coltello, non loro.
Seppelliscono qui sotto i loro morti. Innaffiano le mie radici con le lacrime, chiededomi arrogantemente di consegnarle ai cadaveri che hanno appena tumulato. Tornano dopo due giorni, e poi dopo due anni, sperando che il merito di non avermi dimenticato sia sufficiente per la resurrezione che desiderano. Io do vita a chi c’è, non a chi c’era.
Non hanno mai capito che
per godere di me, bastava guardarmi.
Da vicino o da lontano.