Tempo fa, mi sono capitate sotto gli occhi queste dure righe di Guy Davenport, che sarebbero in inglese ma citerò tradotte per flexare il C2 e millantare populismo:
“Noi ci alziamo, noi cadiamo. Noi possiamo alzarci se cadiamo. La sconfitta ci dà forma. La nostra sola saggezza è tragica, conosciuta troppo tardi, e solo dagli smarriti”.
Che è forse un modo (bello) di dire, come direbbe nonno mio: “del senno di poi son piene le fosse”. O forse è una di quelle frasone positive da life coach, font italico su sfondi tipo tramonto o fiore che sboccia da una manina aperta, quelle che mettono le zie come stato whatsapp, del tipo: “non importa quante volte cadi, ma con quanta grinta ti rialzi”, e sotto un nome famoso a caso. “Un errore è tale solo se non sai ricavarne una lezione – Martin Luther King”. “Il cielo è sempre più buio prima dell’alba – Sant’Agostino di Ippona”. “Io credo in te nel cuore mio – Buddha”. Ora, prima che Davenport risorga dai morti e attraversi la Manica per venirmi a prendere a schiaffi, quel che voglio dire è che io, queste due righe, me le sono lette una, due volte, le ho scritte su un quadernino, l’ho ruminate per un po’, e a un certo punto ho capito perché mi risuonavano: perché io, con il concetto di “perdersi” (to be lost, magnifico perfetto stativo) ho una familiarità molto intima. Lo sa chi viene in macchina con me e ogni santa volta assiste alla pietosa mazurca che imbastisco quando non trovo prima la macchina, poi la tasca delle chiavi (non le chiavi, badate), allora il telefono, quindi di nuovo le chiavi, ultima la dignità. Fra me e “perdersi” c’è un rapporto che è oramai di amicizia e che, come tante belle amicizie – come quelle con le vette degli Appennini, con la carne cotta sul fuoco vivo e con ogni genere di utensile da taglio – è iniziata agli scout. Allora ho realizzato che, forse, fra tutte le cose che ho imparato agli scout la più importante, più della pioneristica, dell’alzarsi presto per camminare con il fresco o di come si caca nei boschi – la competenza più sacra che ho tratto dai miei 20 anni in AGESCI è quella che chiamerei l’arte di perdersi.
Vi racconto una storia.
Era il 2009, anno del fatidico Campo al Mare: il nostro Reparto piantò le tende su una pineta a Civitavecchia, il che vuol dire tanto sole, tanto sale e niente legna, ergo fuochi mandati avanti ad aghi di pino e deodorante. Fra le tante voci che circolano sugli scout (tipo che non ci laviamo – falso: l’essere lavato è condizione relativa e non assoluta, si zugni omnes, nemo zugnus – Cicerone), una è accurata: nel Reparto c’è (sana) competizione. Premi per i giochi, le costruzioni, la cucina. Ebbene, quell’anno la mia squadriglia Tigri faceva schifo. L’unico premio l’aveva vinto il nostro vice-capo come “culo più peloso del Reparto”. Ci dilaniavamo fra la brama di riscatto (sarebbe arrivato l’anno dopo, ma è un’altra storia) e una rassegnazione esistenzialista, che alla fine ebbe la meglio perché i più grandi preferivano le ragazze, i più piccoli il cibo e io, che ero nel mezzo, mangiavo gli avanzi, tenevo il fuoco e non cuccavo. Come adesso, ma con meno barba.
Arriva insomma il giorno delle missioni di squadriglia, quello cioè in cui a ogni squadriglia (squadriglia, sost. f. “gruppo di minorenni affidato a un minorenne”) è data una mappa con un posto da raggiungere, in cui fare delle cose e dormire, per tornare al campo non prima del mezzodì del giorno dopo. Se tu, o Lettore, ne mastichi di diritto penale, ebbe sì, tecnicamente è abbandono di minore, però le famiglie lo sanno. Noi cinque Tigri – il capo, il vice, il piccolo biondo, il piccolo moro e io – andiamo dai Capi-Reparto, facciamo il nostro urlo (“Tigri! Siamo i re della foresta!”), salutiamo e partiamo. Si doveva prendere un autobus, che però non ci fa salire perché siamo in troppi. Ci danno uno strappo in macchina fino al punto in cui ci avrebbe dovuto lasciare l’autobus, una fermata accanto a una rotonda e a una piccola area verde, con un albero, una fontanella e una panchina con vista vallata. Da lì, ci dicono, dobbiamo cavarcela da soli.
Tutti mi fissano: è il momento del topografo, l’uomo della mappa. Il mio momento. Prendo dunque la cartina, noto sagacemente il punto rosso che indica la destinazione, valuto che potevano volerci due o tre ore di buon passo, mi guardo intorno, pondero, considero, soppeso e infine, sazio di ragionamenti, estrofletto l’indice e, sorridendo alla vita, lo punto sulla strada sbagliata.
Naturalmente non sapevo che era la strada sbagliata. O meglio, una parte di me lo sapeva. Chi si è perso almeno una volta sa bene che l’atto di perdersi, come quello di metabolizzare un lutto, si compone di cinque fasi. La prima è il diniego. Io so benissimo che ci siamo persi. Noi tutti sappiamo benissimo che ci siamo persi. Ma non lo vogliamo ammettere, non lo possiamo ammettere, prima di tutto a noi stessi, figuriamoci agli altri. E allora: la strada è giusta, abbiamo fede. Più si va avanti, più è evidente che ci siamo persi – ma più è evidente che ci siamo persi, più è difficile ammetterlo: la strada è giusta, abbiamo fede, e se la cartina non ti dà ragione? impossibile, la cartina dice quel che voglio io, e io credo alla cartina perché lei dice la verità, ma glielo hai detto tu che cosa dire, non so di cosa parli, della serie che George Orwell te spiccio casa. “Siamo qui, è ovvio, guarda questa curva a sinistra, poi ci sarà un rettilineo”. E dopo c’è una curva a destra. “Nooo, sai cosa, non siamo qui, siamo qui, vedi, è ancora più vicino”, “Ma le curve nella cartina sono più strette di queste…”, “Beh, ma perché è in scala! E poi questa di quando è? Ah, beh, 2008, per carità, è retrodatata, l’asfalto cambia in fretta…” e così via, nella speranza folle che Dio si rimbambisca e la realtà si adatti alle minchiate che racconto. Procediamo così lieti a soffriggerci gli scarponi sull’asfalto. Almeno la strada è in discesa…
Questa fase ha una durata potenzialmente infinita: come l’ormai proverbiale gatto nella scatola, la strada è contemporaneamente giusta e sbagliata fino a che qualcuno non la osserva. A quel punto, è solo sbagliata. Il nostro “qualcuno” fu il gestore di un’osteria, primo segno di vita da noi incrociato nelle steppe del Civitavecchiese. Entriamo, spendiamo tutti i soldi delle emergenze per comprare la coca cola (se si è furbi lo si è sempre) e gli chiediamo, “Buonuomo scusi, noi dovremmo arrivare qui, è tanto lontano ancora?”, “Eh, parecchio! Quattro, cinque ore, tutte in salita”.
L’illusione si spezza: termina il diniego e inizia la seconda fase, quella della rabbia. Rabbia rivolta contro di me, e a buon diritto; ma rabbia anche dell’autista della corriera che prendiamo al volo e che, forse lasciato dalla fidanzata e quindi preda di tendenze suicide, forse per aver bevuto un caffè di troppo e dover correre a evacuare, forse per abuso di sostanze psicoattive, fatto sta che si rifece tutta la strada che avevamo fatto in un due, tre minuti, scaricandoci alla piazzola da cui eravamo partiti.
Eccoci qua, incazzati fradici, scoraggiati e con i piedi doloranti. Siamo pronti per la fase tre: il patteggiamento. Che fare? Il capo squadriglia, dovendo scegliere fra me, i due più piccoli e il culo più peloso del Reparto, mi chiama per consigliarlo sul da farsi. Partiamo a piedi e speriamo di arrivare? No: è tardi, siamo stanchi, rischiamo di arrivare col buio. Chiediamo ospitalità in paese? No: c’è una festa, la gente non si fida. Esaurite le opzioni valide, cominciano quelle idiote. Dormiamo su quel carro di fieno? Non mi pare un’ideona (dico con stupefacente lucidità), quello domattina è sparito e noi con lui. Dormiamo sul ciglio della montagna? Sei matto, è in pendenza, rotoliamo sulla strada. E allora dormiamo qui. Qui dove? Qui, sulla rotonda.
Sei anni dopo, ormai da tempo fuori del Reparto, mi ritrovai davanti le nuove leve delle Tigri. Mi dissero: “Noi siamo Tigri! Ma tu lo sai che le Tigri, una volta, mi sa dieci o venti anni fa (mortacci vostra, nota mia), hanno dormito su una rotonda?” Io non ebbi cuore di dirglielo, ma non andò proprio così. Dormimmo nella piccola area verde accanto alla rotonda, sopra un telo cerato e sotto un cielo sorprendentemente inquinato. Io e i due piccoli dormimmo: il capo e il vice rimasero alzati tutta la notte a vegliare su di noi, con coltellino e torcia elettrica a mo’ di spada e crocefisso. Fu una notte lunga, scandita da agguati, incursioni dei carabinieri e una ragazza carina che si fermò alla rotonda per guardarci, scuotere la testa e ripartire. La notte in cui consumammo la quarta fase, la depressione, per svegliarci con le prime luci (perché capo e vice si erano rotti di guardarci dormire) e meditare sulla nostra abietta condizione di eterni sconfitti, mentre cercavamo di fabbricare almeno la casetta per uccelli che era il cuore della nostra missione e che avremmo dovuto lasciare nell’effettiva destinazione ma che invece ieraticamente depositammo là, sulla rotonda.
Con la corriera arrivò la quinta e ultima fase, l’accettazione. Che non doveva venire tanto da noi quanto dal nostro Capo Reparto, Alessio “Occhi di Ghiaccio” Latini, famoso perché una volta una ragazza si era dimenticata la fiamma (per i profani: non un fenomeno termodinamico, bensì il bastone con la bandierina del Reparto) sotto la pioggia e lui, al mattino dopo, gliela aveva tirata sul naso. Uno che insomma dava il suo valore al protocollo. Uno scout col cappellone. Arriviamo al campo in uniforme perfetta, in fila, dritti verso Alessio e quegli algidi suoi bulbi oculari, come dritti si va verso il patibolo. Ci schieriamo, salutiamo a mezza bocca (“Tigri! Siamo i re della foresta!”), ci fissiamo la punta degli scarponi. “Allora, Tigri, come è andata?” Glielo diciamo. Gli diciamo tutto. Lui ci fissa, uno a uno, volto non d’uomo ma di rupe dolomitica. E, di colpo, sorride. “Bravi! Avventura!” Ci saluta, salutiamo (“Tigri! Siamo i re della foresta!”), se ne va. Restiamo soli a non capire cosa sia successo. Probabilmente è andata come in un romanzo di Murakami: prendendo la strada sbagliata siamo entrati in un altro universo, identico al nostro tranne per il fatto che Alessio qui è un uomo misericordioso. A tutt’oggi mi chiedo cosa sia accaduto nell’altro universo, e se i miei genitori originali sentano la mia mancanza.
Ora, dicevamo: l’arte di perdersi.
Nella nostra cultura, “perdersi” è sinonimo di “fallire” e lo stato di “perduto” equivale a quello di “perdente”. Visualizziamo la vita come una strada: chi da essa devia non conquisterà la meta, non darà senso alla sua partenza, è di-verso (“voltato da un’altra parte”). Possiamo allora decidere che perdersi sia da evitare a tutti i costi, o accettarne la natura inevitabile: è allora vincente chi sa gestire la sconfitta e fatturare sul fallimento, convertirlo in nozione e investimento, dimostrare che la sua storia non termina con quell’errore. È in parte quello che mi è accaduto – se nel 2022 sono riuscito a guidare un Reparto fuori sentiero affidandomi solo al nord magnetico, a un fiume e alla pietà della Madonna, è anche perché quel fallimento mi ha dato la spinta a imparare sul serio a orientarmi. Che non è male. Ma questa, Frate Leone (cit.), non è l’arte del perdersi. Non è quello che m’ha lasciato quella estate dei miei tredici anni, non davvero, non nel profondo.
Una grande mistica del medioevo, Giuliana di Norwich, diceva che “è stato necessario che esistesse il peccato”. Se noi ora per peccato intendiamo il suo valore etimologico di inciampare, di mancare il bersaglio e andare fuori pista, insomma di perdersi, allora forse possiamo avere il coraggio di dire che perdersi non è inevitabile – è proprio necessario, e che allora l’arte di perdersi è forse né più né meno di quel che dice il nome suo: l’arte di smarrire la via, godere non a discapito dello smarrimento ma proprio in virtù di esso, che è un po’ come dire “ti amo non al di là dei tuoi difetti, ma proprio per i tuoi difetti”, di ciò che mi fanno scoprire su me stesso, sugli altri, sul mondo, su Dio per chi ci crede e pure per chi no. Ci fa orrore essere persi perché abbiamo cose da fare e posti dove andare. Ma imparare l’arte di perdersi significa forse imparare a scrollarsi di dosso l’illusione del controllo, la dittatura delle ore, il panico delle caselle da spuntare, per concedersi il lusso di camminare un poco senza mappa e vedere chi incontriamo nella selva oscura. Tanto più che, a quanto mi risulta, una cartina della vita il CAI non l’ha ancora stampata – e anche se esistesse, credo che preferirei tirare un azimut a vista, spellarmi i polpacci sui rovi e dormire in un posto che non troverò mai più, sotto un cielo che vedrò solo stanotte. Ecco: questa è la verità che quell’estate ormai lontana ha lasciato scritta nelle tavole del mio cuore. Quando ero un tredicenne che mangiava gli avanzi e non cuccava e ho di colpo ho realizzato che perdersi, mi sa che sotto sotto è una ficata.
E chi vorrà dire che l’intero articolo altro non sia che un elaborato quanto patetico tentativo di giustificare il me stesso tredicenne per quella volta che la sua incompetenza ridusse lui e la squadriglia dormire su una rotonda, rischiando la galera e peggio, beh, avete ragione.
Chiudo lanciando una proposta: provate, oggi, domani, quando vi pare, a perdere la strada o la testa, a perdervi in una storia o in un silenzio, a concedervi un tempo per non sapere dove state andando. Niente da fare, nessun posto dove andare.
Buona strada!